Abstract
[Ita:]Ho letto con grande interesse ed emozione l’articolo di
Zocchetti et al. (1) sull’acroosteolisi. Emozione perché
quello di sorvegliare una fabbrica i cui lavoratori erano
esposti a cloruro di vinile è stato il mio primo incarico professionale,
a pochi giorni dalla Laurea in Medicina, appena
iscritto alla Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro
diretta dal Prof. Angelo Iannaccone, nel lontano 1977.
Sotto la guida del prof. Antonio Bergamaschi, nel Reparto
di Medicina del Lavoro del Policlinico Gemelli, ospitavamo
in quegli anni quella che il prof Giuliano definiva “la
casistica non più numerosa, ma meglio seguita” di intossicati
da CVM. Alla scrupolosa revisione dei casi di acroosteolisi
contenuta nell’articolo voglio quindi aggiungere
quello da noi pubblicato sulla allora più autorevole rivista
del settore (2) e gli ulteriori cinque casi emersi dallo studio
longitudinale della coorte di 37 lavoratori, che presentammo
nel 1988 a Firenze (3). In questo lavoro, purtroppo di
limitata accessibilità, si osservava una correlazione statisticamente
molto significativa tra gravità delle lesioni ossee,
classificate in modo ordinale secondo gravità e diffusione, e
grado del fenomeno di Raynaud (p=0.002 mediante test del
rho di Spearman e tau di Kendall). Tanto le lesioni di tipo
acroosteolitico, quanto le piccole aree di riassorbimento osseo
(pseudo cisti), a sede iuxta-articolare, localizzate per lo
più alle ossa del carpo, erano andate incontro a remissione
spontanea entro 6-12 mesi dalla cessazione dell’esposizione.
Nella coorte, seguita con controlli seriati per tempi
compresi tra 2 ed oltre 15 anni, risultavano migliorati o ridotti
i sintomi vasospastici e attenuati i segni di morphea o
sclerodermia localizzata delle mani, tutti senza calcinosi;
tuttavia in un caso, che a quanto ci risulta è l’unico in letteratura,
il contatto prolungato degli arti inferiori dell’operaio
con resina fresca di PVC contenente elevate concentrazioni
di monomero non reagito nelle operazioni di svuotamento
dei bunker di stoccaggio aveva causato una sclerodermia localizzata
agli arti inferiori, con calcificazioni sottocutanee
ancora evidenti a due anni dalla cessazione dell’esposizione.
Si tratta di osservazioni che mi paiono interessanti, a
tanti anni di distanza, e sono quindi grato a Zocchetti e
Coll. che mi consentono di portarle a conoscenza degli studiosi.
E mi permetto di formulare una risposta al loro interrogativo:
“Cosa si può dire, a questo punto della storia,
per quanto riguarda l’Italia”? L’atteggiamento delle autorità
accademiche e della società scientifica verso questa malattia
professionale, indubbiamente scomoda per la presenza nel
nostro paese di tanti impianti produttivi, non fu dei più illuminati.
Voglio solo ricordare che il lavoro di cui sopra
venne introdotto dal Chairman con le parole: “Ancora una
volta sentiremo parlare di cloruro di vinile”, dopo di che il
mio intervento fu commentato con un: “Bene, se ha finito,
speriamo di non dover più sentire parlare di cloruro di vinile”
e, naturalmente, non ci fu dibattito. Grazie quindi a
Zocchetti che mi restituisce la parola, dopo tanti anni.
Titolo tradotto del contributo | [Autom. eng. transl.] [Acro-osteolysis caused by vinyl chloride] |
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Lingua originale | Italian |
pagine (da-a) | 395-395 |
Numero di pagine | 1 |
Rivista | LA MEDICINA DEL LAVORO |
Volume | 101 |
Stato di pubblicazione | Pubblicato - 2010 |
Keywords
- Acro-Osteolysis
- Carcinogens
- Humans
- Occupational Diseases
- Vinyl Chloride