TY - BOOK
T1 - Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur
AU - Riva, Franco
AU - Ricoeur, Paul
PY - 2013
Y1 - 2013
N2 - [Ita:]Dedicata a Identità e differenze, la XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano del 1994 ospitava l’intervento di due filosofi, Jean-François Lyotard e Paul Ricoeur, che nei confronti del gesto architettonico assumono atteggiamenti ben diversi, a segnare modi alternativi di pensare alla città postmoderna: per quanto sia comune il clima culturale sotteso ad entrambi, vale a dire la crisi della modernità quale crisi delle certezze e di una ragione totalizzante, nonché l’approdo inevitabile ad un sapere narrativo, gli esiti che ne derivano si incamminano lungo percorsi divergenti. Il postmoderno che viene indirizzato da Lyotard verso la meta del decostruzionismo rifluisce invece in Ricoeur su di un narrare inteso diversamente: nel primo caso prevale il motivo della frattura e dell’abbandono dei grandi racconti – quelli, cioè, che hanno una «pretesa di valere in modo universale» e la cui «diffusione è necessariamente violenta, talvolta terroristica» (J.F. Lyotard, 1996, vol. 1: 52) –, e quindi di una narratività postmodernista concepita sotto la cifra dell’indebolimento; nel caso di Ricoeur si difende un’unità ammorbidita, ma insieme conservata, proprio lungo i sentieri di una narratività ermeneutica ed esplicativa. Decostruzione e narratività non segnano soltanto degli orizzonti di pensiero nell’epoca della crisi delle certezze; riflettono pure modi alternativi di concepire il gesto architettonico, la costruzione della città degli uomini: immagini diverse della convivenza come tentativi di uscire dalla crisi della razionalità moderna.
Proprio intorno al senso del gesto di costruire si esalta la differenza tra il postmodernismo di Lyotard e l’ermeneutica narrativa di Ricoeur. Lyotard, ragionando su alterità e postmoderno, arriva perfino a incriminare la «parola progetto» come eredità «profondamente metafisica», essendo tesa alla «legittimazione dell’opera» attraverso la pretesa di «soddisfare una domanda» in modo definitivo: «domanda di concordia, per ogni essere umano e tra gli uomini nello spazio-tempo abitabili»; e quindi «ciò che resta» nonostante tutto «moderno è il progetto, la promessa del progresso, l’escatologia». Al di là delle sue diversità e delle sue manifestazioni contrastanti, che si esplicitano altresì nelle diverse pratiche architettoniche, quelle che vedono contrapporsi ad esempio un Gaudì a un Mies van der Rohe, un Gropius a un Wright o a uno Speer –, anche nel progettare modernista si tratta pur sempre di promettere una «soluzione finale all’angoscia ontologica dell’abitare e soprattutto all’umiliazione moderna dell’essere messi in scatola – quel che noi chiamiamo essere alloggiati». L’incriminazione del progetto implica ovviamente la necessità di un indebolimento dell’eredità metafisica che alberga nell’architettura, tale da lasciare in conclusione soltanto una domanda: «come sarà un’architettura così decostruita, un’architettura debole»? (J.-F. Lyotard, 1996, vol. 1: 53, 55; cfr. 46-55; cfr. J.-F. Lyotard, 1985: 52 ss., per Ricoeur 65).
All’angoscia ontologica dell’abitare non può esserci, per Lyotard, risposta definitiva e, in questo, il progetto architettonico scopre la propria intima debolezza. Ricoeur compie invece la scelta diametralmente opposta: quella, cioè, di riflettere nuovamente sull’atto e sulla progettualità architettonica, per ritrovare una plausibilità formale in senso narrativo.
L’esordio di Ricoeur alla Triennale di Milano non lascia dubbi: «è sempre motivo di soddisfazione per un autore, scoprire un intero campo di investigazione in cui le sue analisi trovano un’applicazione inaspettata, anzi, più che un’applicazione, una proiezione che conferisce a tali analisi una portata capace di modificarne, come un effetto-boomerang, il primitivo significato. Mi riferisco per ese
AB - [Ita:]Dedicata a Identità e differenze, la XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano del 1994 ospitava l’intervento di due filosofi, Jean-François Lyotard e Paul Ricoeur, che nei confronti del gesto architettonico assumono atteggiamenti ben diversi, a segnare modi alternativi di pensare alla città postmoderna: per quanto sia comune il clima culturale sotteso ad entrambi, vale a dire la crisi della modernità quale crisi delle certezze e di una ragione totalizzante, nonché l’approdo inevitabile ad un sapere narrativo, gli esiti che ne derivano si incamminano lungo percorsi divergenti. Il postmoderno che viene indirizzato da Lyotard verso la meta del decostruzionismo rifluisce invece in Ricoeur su di un narrare inteso diversamente: nel primo caso prevale il motivo della frattura e dell’abbandono dei grandi racconti – quelli, cioè, che hanno una «pretesa di valere in modo universale» e la cui «diffusione è necessariamente violenta, talvolta terroristica» (J.F. Lyotard, 1996, vol. 1: 52) –, e quindi di una narratività postmodernista concepita sotto la cifra dell’indebolimento; nel caso di Ricoeur si difende un’unità ammorbidita, ma insieme conservata, proprio lungo i sentieri di una narratività ermeneutica ed esplicativa. Decostruzione e narratività non segnano soltanto degli orizzonti di pensiero nell’epoca della crisi delle certezze; riflettono pure modi alternativi di concepire il gesto architettonico, la costruzione della città degli uomini: immagini diverse della convivenza come tentativi di uscire dalla crisi della razionalità moderna.
Proprio intorno al senso del gesto di costruire si esalta la differenza tra il postmodernismo di Lyotard e l’ermeneutica narrativa di Ricoeur. Lyotard, ragionando su alterità e postmoderno, arriva perfino a incriminare la «parola progetto» come eredità «profondamente metafisica», essendo tesa alla «legittimazione dell’opera» attraverso la pretesa di «soddisfare una domanda» in modo definitivo: «domanda di concordia, per ogni essere umano e tra gli uomini nello spazio-tempo abitabili»; e quindi «ciò che resta» nonostante tutto «moderno è il progetto, la promessa del progresso, l’escatologia». Al di là delle sue diversità e delle sue manifestazioni contrastanti, che si esplicitano altresì nelle diverse pratiche architettoniche, quelle che vedono contrapporsi ad esempio un Gaudì a un Mies van der Rohe, un Gropius a un Wright o a uno Speer –, anche nel progettare modernista si tratta pur sempre di promettere una «soluzione finale all’angoscia ontologica dell’abitare e soprattutto all’umiliazione moderna dell’essere messi in scatola – quel che noi chiamiamo essere alloggiati». L’incriminazione del progetto implica ovviamente la necessità di un indebolimento dell’eredità metafisica che alberga nell’architettura, tale da lasciare in conclusione soltanto una domanda: «come sarà un’architettura così decostruita, un’architettura debole»? (J.-F. Lyotard, 1996, vol. 1: 53, 55; cfr. 46-55; cfr. J.-F. Lyotard, 1985: 52 ss., per Ricoeur 65).
All’angoscia ontologica dell’abitare non può esserci, per Lyotard, risposta definitiva e, in questo, il progetto architettonico scopre la propria intima debolezza. Ricoeur compie invece la scelta diametralmente opposta: quella, cioè, di riflettere nuovamente sull’atto e sulla progettualità architettonica, per ritrovare una plausibilità formale in senso narrativo.
L’esordio di Ricoeur alla Triennale di Milano non lascia dubbi: «è sempre motivo di soddisfazione per un autore, scoprire un intero campo di investigazione in cui le sue analisi trovano un’applicazione inaspettata, anzi, più che un’applicazione, una proiezione che conferisce a tali analisi una portata capace di modificarne, come un effetto-boomerang, il primitivo significato. Mi riferisco per ese
KW - abitare postmoderno
KW - altro
KW - città
KW - city
KW - other
KW - progetto
KW - project
KW - to inhabit postmodern
KW - abitare postmoderno
KW - altro
KW - città
KW - city
KW - other
KW - progetto
KW - project
KW - to inhabit postmodern
UR - http://hdl.handle.net/10807/50489
M3 - Book
SN - 978-88-7615-933-6
T3 - Le Navi
BT - Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur
PB - CASTELVECCHI
ER -